Myanmar: scontri tra buddisti e musulmani a Mandalay, di chi è la colpa?

Khun Dee Yam shares a photo on Facebook of the mob that took part in the riots. He sarcastically wrote[my] “they don't seem like the ones who would pray before they go to bed. But still they claim to protect Buddhism. Hopeless.”

Khun Dee Yam ha condiviso su Facebook una foto della folla che ha preso parte alle sommosse. Sarcasticamente ha scritto “Non sembra il tipo di gente che prega prima di andare a dormire. Nonostante ciò proclamano di voler proteggere il buddismo. Senza speranza.” Foto di Steve Tickner, pubblicata sulla pagina Facebook del The Irrawaddy

La settimana scorsa a Mandalay, la seconda città più grande del centro del Myanmar, è scoppiata una rivolta che è durata quattro giorni, dopo le violenze subite da una donna buddista da parte dei suoi datori di lavoro musulmani. Le rivolte hanno provocato la morte di due persone — una buddista e una musulman — e almeno quattordici feriti. La situazione si è calmata [en, come tutti i link seguenti] dopo che il governo è intervenuto con le forze di polizia per mettere al sicuro la zona e imporre il coprifuoco.

Ma questo è solo l'ultimo di una serie dei violenti faccia a faccia tra la minoranza musulmana e i buddisti, che rappresentano la maggioranza in Myanmar. Alcuni buddisti, infatti, hanno accusato la comunità musulmana di cospirazione, con lo scopo di dominare l'intero paese. Mentre è vero che esiste una certa tensione di natura religiosa, la violenza, in alcuni paesi, è stata istigata da estremismi religiosi.   

C'è chi ha speculato sul fatto che gli scontri della settimana scorsa non sarebbero altro che un complotto per scatenare l'odio religioso nel paese. Poche ore prima che prendessero forma, la Young Buddhist Association aveva ammonito la popolazione sui tentativi di provocare atti di violenza in diverse parti del paese:

Attenzione, siate prudenti!

Abbiamo ricevuto notizie a proposito di istigazioni che hanno lo scopo di creare violenza di matrice razziale o religiosa, che progettano di infiammare [la situazione] nei social network online e in tutta la nazione. Perciò, in nome della pace e della stabilità, genti di diverse appartenenze religiose, mantenete alta la tolleranza e lucida la ragione, ed evitate entrare nel merito delle provocazioni di questi malfattori!

L'ultimo giorno degli scontri, un gruppo di persone si sono radunate in segno di lutto per la morte del buddista TunTun. Alcune lapidi della parte musulmana del cimitero sono state distrutte da una folla infuriata durante il funerale.

Il celebre scrittore di Mandalay, Hsu Nhget, ha criticato le autorità per aver fallito nel tenere a bada le rivolte in modo rapido ed efficace:

Basta prendere come esempio il funerale di Tun Tun: nella folla che vi ha preso parte c'erano anche dei giovani che urlavano tenendo fra le mani dei bastoni, come un gruppo di rivoltosi che invadono la città. Mi chiedo come le autorità abbiano potuto permetterlo. La polizia stava, è comprensibile, gestendo la situazione con cautela perché la folla era numerosa, ma gli addetti alla sicurezza mancavano. Il risultato è stato che qualche giovane arrabbiato ha (facilmente) distrutto la sezione musulmana del cimitero.

È stato formato un comitato di pace, composto dai leader religiosi e dai cittadini locali, per prevenire altri scontri simili a quelli di Mandalay. Il vicepresidente del gruppo di pace Thein  Win Aung ha espresso il sospetto che Mandalay sia stata vittima di un gioco politico che mirerebbe a fermare chi sostiene la campagna 436, che ha l'obiettivo di rivedere la costituzione militare del paese. Egli ha fatto notare che le rivolte hanno fatto sì che si fermasse il sostegno delle persone alla campagna, la quale rappresenta la maggiore iniziativa politica del partito d'opposizione, guidata dall'icona della democrazia nel paese Aung San Suu Kyi. 

Egli ha anche voluto mettere in guardia la popolazione nei confronti di questo “scherzetto”, che ha lo scopo di distogliere l'attenzione pubblica:

Se non riusciamo a cogliere questi trucchetti politici, se non ci controlliamo a vicenda, se permettiamo a noi stessi di cadere in trappola, allora non solo Mandalay ma tutto il paese sarà consumato dalle fiamme e dal caos.

Da parte sua il governo ha ringraziato la popolazione locale per la cooperazione nel ristabilire l'ordine nella comunità:

[…] La stabilità odierna è il risultato dello spirito della popolazione di Mandalay, delle organizzazioni civili, media inclusi, e dei leader religiosi, che desiderano mantenere una reputazione di civiltà, tolleranza e armonia della loro città, assieme alle opportune misure prese dal governo. […]

[…] I leader religiosi e della società civile, assieme a giovani responsabili, che ha fatto in modo di difendere e proteggere persone di altre fedi religiose da incomprensioni non necessarie, meritano la dovuta considerazione.

Facebook bloccato

Durante le rivolte, il governo ha bloccato il celebre social network Facebook, al fine di impedire il divulgarsi di dichiarazioni di odio nel paese. Win Kaung, capo della polizia del Myanmar, ha ammesso in un'intervista concessa al giornale Irrawaddy, che bloccare Facebook è stato un atto necessario per fermare gli attacchi razziali online:

[…] È vero, l'abbiamo bloccato. Volevamo mettere fine alle provocazioni. Quando si istiga o si diffondono notizie non verificate, si risveglia un odio di fondo tra diversi gruppi o persone; una sola parola o riga scritta possono portare a un conflitto maggiore. Dobbiamo fermare tutto questo; dobbiamo fare in modo che la situazione non diventi ingestibile. E dobbiamo farlo sfruttando ogni mezzo possibile. Anche se dovesse diventare ingestibile, dobbiamo sfruttare ogni mezzo a disposizione. […]

Sembra, inoltre, che alcuni giornalisti che si stavano occupando della rivolta sul campo, siano stati presi di mira dalla folla. Sono state rivolte minacce verso i reporter e le agenzie di informazione del web. A causa di tutto ciò, molti giornalisti non sono stati in grado di riportare alcuni incidenti che si sono verificati durante i quattro giorni di rivolta. U Kwam Myint, presidente della Rete Giornalista del Myanmar, ha dichiarato che è giunta l'ora per il governo di prendere provvedimenti nei riguardi di questa situazione:

…Il governo deve scoprire chi sta istigando ad uccidere. La  situazione non può che peggiorare se il governo non agisce. Esso ha il potere di gestire queste minacce che provengono da Internet. Alcuni utenti addirittura usano il loro vero nome. Il governo può utilizzare questi dati e verificare se queste persone stiano realmente diffondendo messaggi d'odio. O rilasciarle se non è vero. Tutto dipende dal modo in cui il governo intende agire. Non è necessario mettere in discussione la capacità di proteggere i giornalisti se non si è in grado di proteggere i propri cittadini.

Anche il prigioniero politico Khine Nyen Thit ha condiviso su Facebook un articolo dal titolo “Attenzione…è una trappola”. Tale articolo si riferisce a scontri razziali risalenti al 1967 e al 1998, i quali furono istigati dal governo con l'obiettivo di distogliere l'attenzione politica. L'articolo, poi, fa riferimento ad altri scontri di matrice religiosa che si sono verificati a partire dal 2012 a Rakhine e Meikhtila, nessuno dei quali è stato scatenato dalla gente del posto.

L'autore nota anche come gli attacchi verbali nei confronti della Lega Nazionale per il Partito Democratico, il quale supporta le riforme costituzionali, erano sensibilmente alte in quei periodi di violenza, e conclude dichiarando che il passaggio verso la democrazia per il  Myanmar sarà possibile solo se la sua popolazione eviterà di cadere in trappole o trucchi politici, volti a preservare l'ordine sociale.

Le rivolte di Mandalay hanno contribuito a sottolineare la profonda divisione sul fronte religioso ed etnico in Myanmar. Se queste continue violenze non vengono fermate, ogni possibilità per il paese di diventare una democrazia pacifica e moderna potrebbe essere seriamente compromessa.

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