Israele interrompe il cessate-il-fuoco con Hamas

L'accordo temporaneo per il cessate-il-fuoco (tahdiya) tra Israele e Hamas ha avuto fine a inizio novembre, quando si è avuta un'escalation di violenza nella regione e la reintroduzione dell'embargo a Gaza. Le Forze Israeliane di Difesa (IDF), che avevano raccolto informazioni su un piano di Hamas volto al rapimento di alcuni suoi soldati, sono intervenute nei pressi del confine con Gaza. L'operazione avrebbe sventato il piano e ucciso sette agenti di Hamas. Come rappresaglia, Hamas ha lanciato un pesante attacco con razzi e colpi di mortaio nella regione meridionale di Israele.

L'accordo per il cessate-il-fuoco, firmato con la mediazione del Governo egiziano a inizio giugno, prevedeva le seguenti condizioni: 1) fine di ogni ostilità tra Gaza e Israele, e alleggerimento dell'embargo [su Gaza]; 2) maggior elasticità nelle limitazioni israeliane al passaggio delle merci; 3) l'inizio di trattative sulla riapertura dell'attraversamento di Rafah tra Gaza e l'Egitto e sullo scambio di prigionieri per ottenere la liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit.

Israele aveva assicurato che si sarebbe astenuta da operazioni militari di grande portata, pur riservandosi il diritto di condurre attacchi mirati su bersagli specifici qualora se ne fosse manifestata la necessità. D'altro canto, Hamas ha sempre considerato l'accordo temporaneo di cessate-il-fuoco come una “tahdiya”, e non una “hudna”. Jonathan Dahoah Halevi [in] spiega la differenza:

La differenza tra i due termini arabi è sostanziale. “Hudna” significa “tregua”, ed è ben più concreta della “tahdiya” – “un periodo di calma” – che è il termine spesso utilizzato da Hamas per descrivere un semplice cessate-il-fuoco. Ad ogni modo, nel pensiero tradizionale islamico una “hudna” indica un accordo negoziato tra un'entità islamica e una non islamica che può essere ritrattato nel momento in cui la fazione islamica recupera la forza necessaria per riprendere il combattimento. Nondimeno, una “hudna” implica il riconoscimento dell'esistenza della controparte, ma non l'accettazione della sua legittimità.

Una “tahdiya” è meno solida di una hudna. Negli scorsi mesi il leader di Hamas, Khaled Mashaal, e il suo vice, Musa Abu Marzouq, hanno proposto la loro interpretazione del concetto. In un'intervista rilasciata ad Al-Jazeera (il 26 aprile 2008), Mashaal ha spiegato che per Hamas una thadiya è “una tattica usata nella gestione di un conflitto, una fase nel quadro della resistenza [termine che indica ogni forma di lotta]”. Ha inoltre aggiunto che “Non è inusuale per un gruppo impegnato nella resistenza (…) lanciare un'escalation, per ritirarsi subito dopo, proprio come una marea  (…) La tahdiya permette una trattativa che costringerà Israele (…) a rimuovere l'assedio (…) e se ciò accadrà, vorrà dire che abbiamo ottenuto un risultato notevole (…) Parliamo qui di una tahdiya tattica (…) Finchè persisterà l'Occupazione, non ci saranno alternative alla resistenza.

Questo cessate-il-fuoco ha permesso ad Hamas di espendare la capacità militare in vista della prossima ondata di terrore e violenza. Il blogger soccer dad [in] discute quest'aspetto:

Ciò significa semplicemente che Israele tollererà un certo livello di violazioni prima di essere costretta ad agire. Il circolo vizioso continuerà a ripetersi finchè Israele non deciderà di intraprendere un'azione decisiva nei confronti di Hamas, e spazzarne via le capacità terroristiche proprio come fece contro Fatah nel corso dell'operazione Defensive Shield.

Il punto principale di una tahadiyehè, per Hamas, che le permette di riarmarsi e organizzare la prossima campagna contro Israele.

È inoltre plausibile immaginare che Hamas non abbia alcuna intenzione di rilasciare Gilad Shalit in tempi brevi. Nonostante i benefici politico-militari derivategli dalla tahadiyeh, se Hamas è tanto impudente da permettersi di accusare Israele di non rispettare i doveri imposti dalla tregua, mentre li vìola apertamente (continuando il riarmo), questo significa che cercherà di ottenere molto di più per il rilascio di Shalit.

Il fragile accordo raggiunto tra Israele e Hamas è soggetto alla promessa egiziana di fare il possibile per impedire il contrabbando di armi nella Striscia di Gaza (…)

Gli eventi del 4 novembre hanno riportato la violenza nella regione, e posto di fatto fine al cessate-il-fuoco. Il blog Doc's Talk ha descritto gli eventi [in] nel loro sviluppo:

Le Forze Israeliane di Difesa (IDF), che avevano raccolto informazioni su un piano di Hamas volto al rapimento di alcuni soldati, sono intervenute nei pressi del confine gazano. L'operazione avrebbe sventato il piano, e ucciso sette agenti di Hamas. Come rappresaglia, Hamas ha lanciato un pesante attacco con razzi e colpi di mortaio, il primo dopo l'entrata in vigore del fragile accordo. Dopo i primi lanci, razzi e colpi di mortaio sono proseguiti sporadicamente (a opera di organizzazioni terroristiche minori). Israele ha reagito chiudendo l'accesso alla Striscia di Gaza (…).

Il 12 novembre c'era stato un altro episodio, quando l'IDF aveva ucciso quattro terroristi di Hamas  che stavano piazzando un ordigno esplosivo improvvisato lungo la recinzione di sicurezza del confine. Le organizzazioni terroristiche palestinesi, capeggiate da Hamas, avevano reagito con il lancio di razzi e colpi di mortaio sui centri abitati del Negev occidentale, tra cui Sderot e Ashqelon. La pioggia di razzi, lanciati con varia intensità, è proseguita per ben quattro giorni senza sosta.

(…) Vista la scarsità di beni di prima necessità nella Striscia, e a seguto degli appelli rivolti dalla comunità internazionale, l'11 novembre Israele aveva deciso di rifornire la centrale elettrica di Gaza con una ridotta quantità di carburante, interrompendo la fornitura il giorno successivo per la ripresa dell'offensiva missilistica di Hamas.

(…) In realtà la chiusura della centrale ha provocato malfunzionamenti nell'erogazione di energia elettrica nell'area di Gaza City. Tuttavia l'interruzione non è stata totale, poiché la centrale di Gaza è responsabile soltanto del 30% dell'energia erogata nella zona. Come al solito Hamas ha avviato una campagna propagandistica in cui enfatizzava la portata delle sofferenze subite dalla popolazione locale, tralasciando volontariamente ogni riferimento agli attacchi terroristici e al lancio di razzi che avevano causato la chiusura dell'attraversamento. L'obiettivo della campagna era quello di esercitare pressione su Israele tramite la comunità internazionale, i Paesi arabi e l'opinione pubblica israeliana; in questo modo, Israele ha dovuto riaprire i passaggi per Gaza nonostante le organizzazioni terroristiche palestinesi stessero continuando a sferrare attacchi.

Mentre la posizione israeliana ufficiale suggerisce che i continui blackout sarebbero una messinscena di Hamas, (non è la prima volta [in] che lo Stato ebraico solleva tale questione), la situazione a Gaza è disperata.  Amira Hass propone [in] una descrizione più personale delle condizioni di vita a Gaza:

Uffici, studi medici, residenze private: tutti al buio per i continui cali di tensione, che possono verificarsi a qualunque ora del giorno. Ogni telefonata ha inizio chiedendo all'interlocutore se ha l'elettricità, se è riuscito a lavare i figli prima che finisse l'acqua calda, se la lavatrice era in funzione quando è andata via la luce.

I frigoriferi sono particolarmente soggetti a rompersi per le continue interruzioni di corrente; anche la rete di telefonia mobile è vulnerabile, e a volte finisce per collassare. Non sono tanti quelli che possono permettersi un gruppo elettrogeno per la casa o per l'ufficio, o il carburante necessario a farli funzionare. Si cerca di risparmiare ogni centesimo.

La carenza di carburante e di bombole a gas per cucinare comincia a preoccupare molte persone. Al momento, pur essendo novembre, il clima è ancora relativamente mite, ma la gente pensa a quello che succederà se Israele continuerà a impedire il passaggio di gas per cucinare o diesel per il riscaldamento anche quando arriverà l'inverno.

A spulciare la stampa e la blogosfera israeliane, sembrerebbe non fossero in molti a credere che la tregua sarebbe durata fino a novembre. In un post intitolato Crushing the tahadiyeh Zvi Bar'el scrive:

Un tunnel qui, una bomba sul ciglio della strada lì, colpi di mortaio, razzi qassam, chiusure dei confini, riaperture dei confini, invasioni dell'esercito israeliano, “operazioni veloci ed efficaci”, quattro assassinati, altri sei morti. I puntelli che finora mantenevano in piedi la fragile tregua nella Striscia di Gaza, che le impedivano di crollare, cominciano a rompersi con velocità e rumore crescenti. Ciascuna fazione sta ben attenta a non proclamare la fine del cessate-il-fuoco, ben sapendo che chi lo farà verrà immediatamente indicato come responsabile del crollo di quella fragile proposizione. Non sono passati nemmeno cinque mesi “tranquilli” dalla stipula della tregua, ottenuta con la mediazione dell'Egitto, che è già ora di prepararsi alla fase successiva.
(…)
Dall'entrata in vigore del cessate-il-fuoco, Israele ha addotto diverse ragioni per sospendere l'accordo e lanciare un attacco su Gaza. Le armi e gli esplosivi sono arrivati nella Striscia senza essere quasi notati, si è continuato a scavare tunnel e a installare ordigni esplosivi su tutto il territorio per respingere un'eventuale invasione israeliana via terra. Il “tunnel a orologeria” della scorsa settimana, presumibilmente realizzato allo scopo di rapire alcuni soldati israeliani, non poteva essere certo classificabile come “pericolo imminente ed effettivo”; la sua esistenza era nota, e le autorità israeliane avrebbero potuto impedirne l'utilizzo, o perlomeno si potevano trasferire i soldati stazionati lungo il percorso.

È impossibile sostenere che chi ha deciso di farlo saltare in aria abbia agito con avventatezza.
L'establishment militare era a conoscenza delle immediate conseguenze di una simile contromisura, così come sapeva bene che istituire una politica di “ingresso controllato” nell'angusta area della Striscia avrebbe condotto in una sola direzione: alla fine della tregua. Si è quindi trattato di una mossa dettata da ragioni politiche, non di una decisione tattica presa da un comandante militare dell'area.

Recentemente, L'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha criticato Israele. Barak Ravid e Amos Harel commentano [ebr] la reazione israeliana alle sue osservazioni:

Israele ha reagito duramente a commenti rilasciati da Navi Pillay, Alto Commisario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, che richiedeva la fine immediata del blocco imposto sulla Striscia, fatto che secondo lei costituiva una violazione del diritto internazionale e umanitario.

Nella dichiarazione rilasciata dal suo ufficio di Ginevra, la Pillay aveva richiamato con fermezza Israele a consentire il transito di aiuti, cibo, medicinali e del carburante necessario a permettere il ripristino della rete elettrica e dei servizi idrici nel territorio controllato da Hamas.

Secondo alcune fonti, la Pillay avrebbe inoltre affermato che per mesi un milione e mezzo di uomini, donne e bambini palestinesi sono stati deprivati dei più essenziali diritti umani. Ha quindi rivolto un appello a Israele affinchè ponga fine ai raid aerei e alle incursioni su Gaza, oltre che anche ai militanti palestinesi perché cessino il lancio di razzi sul territorio israeliano.

Israele aveva imposto il blocco di Gaza dopo che il gruppo islamico di Hamas aveva preso con la forza il controllo del territorio nel 2006. Più recentemente, vista la recrudescenza negli attacchi missilistici sulle città israeliane, lo Stato ebraico aveva inasprito l'embargo.

Le richieste della Pillay hanno provocato la piccata risposta dell'ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite a Ginevra, Aharon Leshno-Yaar. Costui l'ha accusata di essere poco lungimirante e di ripetere informazioni palesemente errate.

“La responsabilità totale di quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza va attribuita ad Hamas, che investe le sue risorse negli armamenti e nella pianificazione di attentati terroristici, invece di occuparsi della popolazione su cui esercita un controllo brutale”, ha detto Aharon Leshno-Yaar, aggiungendo che negli ultimi dieci giorni le organizzazioni palestinesi paramilitari avrebbero lanciato contro Israele oltre 170 tra razzi e colpi di mortaio.

Leshno-Yaar ha anche respinto al mittente l'accusa della Pillay, secondo cui Israele avrebbe interrotto il rifornimento delle risorse essenziali a Gaza.

“Acqua ed energia elettrica continuano a passare da Israele a Gaza; ieri 33 camion carichi di rifornimenti sono stati fatti entrare nella Striscia, e molti altri continueranno ad arrivare non appena Hamas porrà fine ai violenti attacchi”, ha continuato Leshno-Yaar.

Infine, un'opinione personale: dopo aver seguito vari blog e siti di informazione, devo ammettere che anche per me è difficile mantenere una posizione chiara, via via che la situazione lungo il confine va facendosi sempre più complessa. Una cosa è chiara: a entrambe le parti manca una leadership solida, cosa che diffonde un senso d'impotenza. Anche se presto Israele e Palestina andranno a nuove elezioni, la speranza che i nuovi leader potranno mettere fine alle violenze pare ridotta al lumicino. Voi cosa ne pensate? Credete che le prossime elezioni influiranno sulla situazione? Se sì, in che modo?

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