Traduzione e complessità dell'informazione globale

Lo scorso aprile Google Translate ha annunciato di aver raggiunto i 200 milioni di utenti al mese. Ciò significa, come ha sottolineato Alexis Madrigal sul mensile The Atlantic, che Google traduce in un giorno quanto un essere umano tradurrebbe in un anno: l’equivalente di un milione di libri.

Google Translate è tutt'altro che perfetto: la prosa confusa, la grammatica creativa e le bizzarre sostituzioni di parole gli sono valse il soprannome di “Dada Processing”. Tuttavia si tratta di uno dei pochi prodotti Google del quale si possa affermare inequivocabilmente che apporti più benefici che danni. Grazie a Google Translate milioni di persone hanno accesso a idee che prima sarebbero rimaste impenetrabili. L’automatica mancanza di considerazione da parte dei media stranieri è storia passata.

Dal suo esordio nel 2006, Google ha aggiunto 65 lingue provenienti da ogni parte del mondo, con due eccezioni notevoli: l’Asia centrale e l’Africa subsahariana. Nessuna delle lingue dell’Asia centrale rientra negli standard di Google, nonostante ognuna abbia un numero di parlanti di gran lunga maggiore rispetto a quelle che vi sono rientrate. Sono assenti il pashtu (50 milioni), l’usbeco (21 milioni) e l’uiguro (9 milioni) Come anche le lingue africane hausa (40 milioni), yoruba (19 milioni) e zulu (10 milioni). Le sole lingue dell’Africa subsahariana incluse sono lo swahili e l’afrikaans, derivante dall’olandese. Al contrario, sono rappresentate l’islandese (310.000), il gallese (480.000) e l’irlandese (60.000), così come ogni altra lingua europea.

La traduzione ha la capacità di cambiare la politica della percezione. In questo contesto, l’Asia centrale e l’Africa subsahariana condividono anche qualcos’altro: entrambe partono già svantaggiate. Le due aree sono infatti quelle che hanno minori probabilità di essere seguite dai media internazionali e che più facilmente vengono liquidate come primitive, oscure e irrilevanti dai non addetti ai lavori.

Recentemente la politologa Laura Saey ha delineato i problemi che affliggono la copertura mediatica in Africa: la scarsità di corrispondenti internazionali, la cinica descrizione di eventi tragici, l’eco di notizie già riportate, la tendenza a non tener conto delle diversità regionali, il razzismo e la condiscendenza gratuiti. Gli stessi atteggiamenti caratterizzano anche la copertura mediatica in Asia centrale. “Se servono centinaia di morti o una rivoluzione perché riportiate le notizie di un Paese, non occupatevi dei suoi ‘comici’ insuccessi politici ed economici”, ha scritto Matthew Kupfer su Registan, lamentando lo scherno mediatico internazionale rivolto all'impossibilità del Kirghizistan di far fronte ai suoi debiti.

C’è un’ulteriore somiglianza tra l’Asia centrale e l’Africa subsahariana: gli avvenimenti di queste aree vengono descritti attraverso il linguaggio della colonizzazione. La maggior parte delle notizie che riguardano l’Asia centrale è riportata da persone che parlano russo. Allo stesso modo, quelle dell’Africa subsahariana sono raccontate da persone di lingua inglese, francese e araba. Non è però colpa dei giornalisti: quando le redazioni affidano un’area tanto vasta a così pochi individui, non ci si può aspettare che questi conoscano tutte le lingue locali; di conseguenza, sembra ragionevole che essi facciano affidamento su una lingua franca. Quando si tratta di internet però tale affidamento si rivela problematico, dal momento che la rete offre molte possibilità per poter fare di meglio.

Tra le agenzie di stampa sta diventando sempre più comune parlare di un Paese riportando denunce pubblicate online. Questo è il motivo per cui la CNN riprende pagine di Facebook e conflitti complessi vengono ridotti a “Twitter Revolution”. Non avendo la capacità di tradurre le lingue locali, i giornalisti fanno affidamento su qualsiasi materiale siano in grado di comprendere. Ciò significa, per esempio, che contenuti in lingua russa sono spesso utilizzati per descrivere cosa sta succedendo nelle comunità usbeche. Vengono ignorati, al contrario, contenuti online creati da utenti di lingue come l’usbeco (spesso preferiti dai cittadini dell’Uzbekistan, sebbene conoscano il russo).

Di conseguenza, importanti approfondimenti e dibattiti restano invisibili al mondo esterno. In un articolo del 2010 scrivevo: “Esiste un’altra internet, un’internet segreta, in cui confronti politici significativi avvengono in usbeco, chirghiso, kazako, turkmeno e tagico, mentre la maggior parte del mondo ne rimane all’oscuro”. Ciò in replica a Evgeny Morozov e altri i quali asserivano di trovare irrilevanti i media kirghizi presenti nella rete. Considerazione che è vera oggi così come allora.

Google si muove tuttavia nella giusta direzione: si stanno mettendo a punto traduzioni per il kazako e il kirghiso, mentre Google Africa sollecita il coinvolgimento di cittadini locali interessati a espandere le potenzialità del sito. Si spera che tali contributi possano incrementare la conoscenza dell’area necessaria per scriverne con spessore e partecipazione. Nulla è in grado di sostituire un traduttore in carne e ossa, in particolare quando si tratta di tradurre siti web centro-asiatici e africani ricchi di barzellette, espressioni idiomatiche e poesie. Google Translate può tuttavia dare l’idea di quel che sta a cuore alla gente; cosa che potrebbe favorire l'abbandono di un'attenzione mediatica intrisa delle banalità e dei pregiudizi menzionati da Saey. Ciò permette inoltre a chi conosce le sole lingue locali di avere accesso a testate estere e tradurre le proprie produzioni per un pubblico più vasto (operazione che l’ottimo Global Voices ha realizzato su una scala ancora più selettiva).

Per i cittadini interessati alla politica e agli affari internazionali, si tratta di un dono inestimabile. Nel saggio Covering Islam, Edward Said scrive: “Non c’è mai interpretazione, comprensione e conoscenza quando non c’è interesse”, criticando i pregiudizi dei media nei confronti del mondo musulmano. I Paesi dell’Asia centrale e quelli subsahariani hanno a che fare con un problema simile ma senza dubbio più grave: è difficile generare interesse nei confronti di luoghi che molti non considerano come entità complesse. Nell’era digitale, impenetrabile significa invisibile; invisibile significa irrilevante. Aggiungere ulteriori lingue locali e nazionali a Google Translate rappresenta un piccolo passo verso la soluzione di questo problema.

Post originale: Lost in Google’s Translation, di Sarah Kendzior. Traduzione italiana di Chiara Addari.