USA: Gli immigrati sono persone, non numeri (Parte II)

Questa è la seconda e ultima parte dell'intervista alla giornalista messicana Eileen Truax. La prima parte, per chi se la fosse persa, si trova qui [it].

La giornalista e autrice messicana dell'Huffington Post Voces, Eileen Truax [es], ha recentemente pubblicato il libro Dreamers. La lucha de una generación por su sueño americano [Sognatori: la lotta di una generazione per il sogno americano].’ Migrant Journeys [en] ha parlato con lei a proposito della responsabilità dei media tradizionali e della copertura da loro fornita alle questioni riguardanti l'immigrazione, e altro ancora.

Robert Valencia: Parliamo del ruolo dei media, specialmente di quelli anglofoni. Sentiamo sempre parlare di storie di latino-americani, ma solo nei canali a loro dedicati, come NBC Latino o FOX Latino. Lei pensa che l'esistenza di queste piattaforme espressamente dedicate a questa comunità possano avere un effetto controproducente ai fini dell'obiettivo di condividere le storie degli immigrati con chi è estraneo alla questione o non è a contatto con la comunità?

Eileen Truax: Mi pongo la stessa domanda, comunque una cosa non esclude l'altra. E’ importante che queste piattaforme affrontino i temi cari alla comunità, ma non devono diventare l'unica occasione di confronto. I media tradizionali vedono ancora gli immigrati (o, come li chiamano loro, i “gruppi etnici”) come corpi estranei che invadono questo Paese. Leggendo il Los Angeles Times, o il New York Times, o guardando la TV, si nota che il soggetto sono sempre “loro”, o “i salvadoregni” o “gli asiatici”, e non si usa mai un linguaggio che comprenda tutti e che faccia riferimento a “noi come società americana”; cittadini e immigrati, però, hanno gli stessi problemi. Se il mercato immobiliare crolla o il sistema sanitario subisce delle modifiche, ci andiamo di mezzo tutti; lo stesso accade se il sistema educativo perde colpi, perchè ci vanno di mezzo i miei figli come quelli di chiunque altro. Voglio dire che i problemi all'ordine del giorno non devono essere affrontati solo dai latino-americani o dagli asiatici, ma da tutti noi in quanto società americana, tessuto di un unico Paese. Chiunque pensi che se il tuo cognome non è Gonzales allora sei immune da ciò che accade nella comunità latino-americana, non ha buon senso e nemmeno una buona conoscenza della realtà del nostro Paese. Il grande problema è che i media tradizionali non vogliono ammettere la realtà delle cose, e cioè la loro incapacità di accettare che la diversità è ormai una realtà di questo Paese.

RV: Gli immigrati senza documenti pagano anche tasse per un ammontare di un miliardo di dollari, ma a questo non si dà alcun risalto a livello nazionale. Cosa dovremmo fare, come giornalisti o esperti di comunicazione, per far arrivare queste storie all'attenzione dell'opinione pubblica, e contrastare così la retorica dell'amnistia?

ET: E’ necessario mettere in rilievo la componente umana [di queste storie] ogni volta che se ne parla. Penso che dovremmo smettere

Eileen Truax. Photo used with permission.

Eileen Truax. Foto di René Miranda, uso autorizzato

di inseguire quelle notizie che infiammano il dibattito e nulla più. Sfortunatamente, il ritmo che scandisce le nostre vite, che è il risultato della crescita incontenibile della rete, invece di avere risvolti positivi ci ha ridotti a “schiavi del mouse.” Dal boom della rete si sono diffuse tre leggende su chi si occupa di giornalismo. La prima è che dobbiamo diffondere la notizia prima di chiunque altro, altrimenti perdiamo; la seconda è che più la nostra storia viene cliccata, più questa diventa importante, e secondo la terza, la gente non legge la notizia per intero, perciò dobbiamo veicolare l'informazione in maniera graduale, per invogliare coloro a cui leggere online non piace. Penso che queste tre leggende stiano rovinando il giornalismo di approfondimento, che ha l'esatta funzione di rendere la realtà comprensibile agli occhi della società. Stiamo diventando semplici annunciatori di storie che non abbiamo il tempo di approfondire. Esempio tipico: “Camion si schianta. Trafficante d'uomini arrestato. Quattro sequestrati, due uccisi”; detta così sembra uno slogan pubblicitario, ma siamo noi che non approfondiamo ciò che leggiamo. Non sappiamo chi sia la persona arrestata, o cosa sia successo a lui e agli immigrati appena arrivati. Non ci preoccupiamo del seguito delle storie, pensiamo solo a chi pubblicherà per primo la storia e a chi riceverà più condivisioni. Dimentichiamo la nostra missione e il nostro dovere di raccontare le storie in cui ci imbattiamo. Se sei un reporter e hai il privilegio di scoprire storie che nessuno ancora conosce, hai il dovere di raccontarle nel modo più appropriato.

RV: Pensa sia necessario schierare più funzionari di sicurezza al confine anche di fronte al calo considerevole dell'immigrazione negli Stati Uniti, e al fatto che tale misura sarebbe uno spreco per i contribuenti?

ET: Una cosa è affermare che la legge rende esecutivo un programma per lo stanziamento di risorse umane e materiali per la sicurezza del confine, un'altra è dire che verrà approvato un budget per questo scopo. Abbiamo avuto un'esperienza simile nel 2007, con la creazione di un muro virtuale al confine; con l'arrivo della recessione, non c'erano fondi per mettere in atto ciò che la legge aveva approvato. Ora, i budget vengono approvati ogni anno, perciò il fatto che una legge dica che possiamo destinare milioni di dollari al confine non significa che ogni anno, all'approvazione del budget, i soldi ci saranno. Non penso comunque che questo sia il fattore più importante, il problema piuttosto è che stiamo perdendo di vista il significato della riforma dell'immigrazione; la nostra iniziativa parte dalla definizione della sicurezza, per poi parlare di immigrazione. Determinare il benessere e il riconoscimento dei diritti di oltre 11 milioni di persone in base a come il Governo possa proteggere con successo il confine, è perfettamente inutile. Torno a dire che, dal mio punto di vista, il fallimento sta nella nostra incapacità di comprendere la riforma dell'immigrazione come una questione di diritti umani e giustizia sociale, piuttosto che una problematica di sicurezza nazionale e di partigianeria.

RV: C'è qualcosa che vorrebbe aggiungere, a questo punto?

ET: Dobbiamo smettere di pensare all'immigrazione come a una questione partigiana, o un bottino per le negoziazioni in tempo di elezioni. Dobbiamo pensare alle persone, e a tale scopo è necessario avere un approccio rigoroso alla storia dei Sognatori. Torno all'inizio dell'intervista, ribadendo che la generazione dei Sognatori è la faccia generosa dei “senza documenti” e della medaglia di questo Paese, o meglio, di come potrebbe essere. Per definizione, i Sognatori sono individui che vogliono proseguire la loro istruzione superiore e diventare medici, avvocati, infermieri e così via; si tratta di giovani che rappresentano la forza lavoro del futuro di questo Paese, che pagheranno la pensione di chi oggi siede in Campidoglio e dei figli del “baby boom”, consapevoli di non avere sotto di loro una generazione sufficientemente ampia per sostenere la loro sicurezza sociale e i loro fondi pensione. Non stiamo parlando solo di fare un favore a un pugno di giovani, ma di diffondere un pò di ottimismo nel Paese, se questa è la forza-lavoro del domani. La domanda è: dove li vogliamo? Vogliamo vederli lavorare nell'ombra in qualche ristorante, oppure desideriamo che diventino professionisti di successo che contribuiscono in modo determinante alla crescita economica e alla stabilità? Diamo una risposta a queste domande e capiremo la necessità di una riforma dell'immigrazione.

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